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domenica 24 giugno 2018

SCREAM FOR ME FIRENZE // LJUBO UNGHERELLI RACCONTA TERZO E QUARTO GIORNO DI FIRENZE ROCKS 2018 (CON IRON MAIDEN, OZZY...)



Doppiata la boa di metà festival, “il Rock” si ripresenta ai blocchi di partenza sabato 16 giugno per la terza giornata. Torna anche uno dei protagonisti assoluti della manifestazione: il sole, che per fortuna ha tenuto a debita distanza i rischi di precipitazioni, producendo una calura costante ma abbastanza sopportabile con la collaborazione di correnti d’aria ventosa che hanno mitigato la canicola. Per quella che si rivelerà la giornata con il minore afflusso di pubblico, circa quarantamila unità, le file per i controlli sono di una lunghezza e di una pedanteria inconcepibili. La card è heavy metal oriented e, si sa, i metallari sono brutti, sporchi e cattivi e bisogna essere scrupolosi per impedirgli di nuocere allo scibile umano. Tutto ciò mentre, all’interno, gli Shinedown stanno intrattenendo coloro che sono riusciti a superare indenni e in tempo utile le procedure di accesso alla Visarno Arena. Orecchiando da fuori, ci sarebbe solo da ringraziare lo zelo degli addetti alla sicurezza per aver dilatato le tempistiche, impedendo di testificare appieno quello che musicalmente pare avere le sembianze di uno strazio. Viceversa, testimonianze raccolte sul campo raccontano di un live divertente e coinvolgente, merito anche di un frontman che sa il fatto suo. Tocca quindi alla band di un Jonathan Davis in libera uscita dai Korn. Spiace infierire su un personaggio della sua levatura, ma il materiale solista del cantante californiano risulta una miscela piuttosto indigesta di technopop, trip hop e alcune soluzioni più vicine al sound alternativo della band di origine. Due–tre canzoni si elevano oltre la sufficienza, ma non risollevano più di tanto la situazione. Apprezzabile il tentativo di esplorare nuove vie artistiche, anche con l’ausilio di violino e contrabbasso che vanno ad affiancarsi alla strumentazione più tradizionalmente ancorata al rock, ma non vi è granché di cui bearsi. Giocano invece sul campo a loro più congeniale gli Helloween in versione “Pumpkins United”, tour nel quale l’attuale organico del gruppo tedesco è coadiuvato dai due figlioli prodighi Michael Kiske e Kai Hansen.


Tralasciando le considerazioni sulla natura di questa reunion, che bene o male si possono applicare a gran parte delle analoghe operazioni che spopolano nel business musicale, meglio limitarsi a quanto visto nei settantacinque minuti di concerto. Kiske, lo storico cantante degli Helloween di fine Ottanta, pare uno che passa di lì per caso: si muove con aria spaesata, canta un paio di mezze strofe, volge il microfono in direzione del pubblico durante i ritornelli e sparisce dietro le quinte, demandando il grosso del lavoro al titolare Andi Deris, frontman con maggior presenza scenica e padronanza del palco nonché, ad oggi, in una forma vocale nettamente superiore. Più a suo agio Hansen, uno dei personaggi più amati e carismatici del metal europeo. Il leader dei Gamma Ray si ritaglia il suo spazio con un gran bel medley di canzoni risalenti agli albori degli Helloween, quando ne era il chitarrista ma anche il cantante: schegge di power–speed metal che portano i nomi altisonanti di “Starlight”, “Ride the sky”, “Judas” e “Heavy metal is the law”. Presenza/assenza di Kiske a parte, lo spettacolo è godibile e include tutti i classici dell’epoca d’oro, e in aggiunta due singoli dell’era Deris, “If I could fly” e soprattutto la squisita “Power”. 


Se gli Helloween sono da sempre considerati epigoni degli Iron Maiden, ecco che “il Rock” li ha infilati in apertura ai loro padrini, che con il “Legacy of the beast tour” segnano a Firenze la prima delle tre tappe italiane dell’estate 2018. Inutile cercare artifizi retorici: i Maiden si guadagnano a mani basse il titolo di dominatori del festival con un concerto che rasenta la perfezione. Due ore scarse di heavy metal suonato senza pause né cedimenti, vissuto sul palco ostentando l’entusiasmo di un gruppo di ventenni (quando il più giovane di questi sei gentlemen inglesi è in procinto di compierne sessanta) e condito da scenografie opulente. Se poi qualcuno fosse interessato a voler applicare il concetto di “mattatore” al frontman di un gruppo rock, basta osservare Bruce Dickinson in azione. Smessi i sobri panni di uomo d’affari e pilota di aerei e, per fortuna, anche quelli da docker cassintegrato indossati nel precedente tour e che sarebbero stati più adatti a qualche sfigato che suona post rock, Dickinson sfodera una prestazione da manuale, fatta di corse, salti, cambi d’abito, costante interazione col pubblico (a colpi di “Scream for me Firenze”) e con gli elementi di scena. E che dire di una voce cristallina e potentissima, in barba al correre inesorabile del tempo e al tumore alla gola sconfitto non molti anni fa. E il contorno non è certo da meno. Dave Murray e Adrian Smith, in particolare quest’ultimo, tessono le inconfondibili trame chitarristiche del gruppo, laddove Janick Gers indulge nei suoi numeri da giocoliere. Ultimo ma non ultimo, il lider maximo Steve Harris non lesina le sue caratteristiche pose, col piede sinistro poggiato sulla spia e la paletta del basso rivolta verso il pubblico come fosse la canna di un fucile in posizione di sparo. “Il Rock”, che nelle precedenti giornate, specie nella seconda, aveva visto un pit piuttosto abulico, già sulle note preregistrate di “Doctor Doctor” degli UFO, intro di lungo corso dei concerti degli Iron, fa presagire che sarà tutta un’altra musica.


Sono sufficienti i primi istanti di “Aces high”, preceduti dall’altrettanto familiare “Churchill’s speech”, l’arringa con cui il primo ministro britannico esorta il suo popolo alla resistenza contro i nazisti, a scatenare una bolgia infernale sottopalco, che non andrà a smorzarsi se non in concomitanza con le amene melodie di “Always look on the bright side of your life” dei Monty Python, usuale chiusa per una band che non difetta nemmeno dello humour necessario per affrontare le cose della vita. La scaletta di questo tour pare realizzata con una sorta di manuale Cencelli in versione heavy metal. Ben dieci gli album da cui vengono attinti i pezzi da proporre, e uno scarto temporale di ventisei anni tra il più antico (1980) e il più recente (2006), con prevalenza accordata a “Piece of mind” (quattro) e “The number of the beast” (tre). Poco altro da aggiungere, se non ulteriori parole di sconfinata ammirazione. Niente artifizi retorici, si era detto. Si passa dunque oltre, con la consapevolezza che, vi fosse un concorso come nei vari Sanremo, “il Rock” avrebbe il suo vincitore con largo anticipo. Resta l’ultima giornata. Domenica 17 giugno prevede una card sempre grama ma quantomeno variegata. Alle 16 è tempo dei Tremonti. Il chitarrista degli Alter Bridge, anche voce principale in questo progetto solista giunto alla quarta prova discografica, si disimpegna in sonorità più aggressive e legate alla scuola power–thrash metal made in Usa, specie per quanto riguarda ritmiche e strofe, mentre i ritornelli si aprono similmente a quelli del gruppo da cui proviene. Il tutto, mentre sul fondale già si staglia l’enorme croce su cui sarà imperniata la scenografia di Ozzy Osbourne. Un po’ statici e troppo raccolti nell’enorme palco che consentirebbe maggior dinamismo, ma comunque efficaci, guidati da un guitar hero e compositore di primo piano dell’hard rock–metal del terzo millennio. Altro che “Living after midnight”… I Judas Priest si presentano sul palco a metà pomeriggio, con un set giocoforza ridotto a circa sessanta minuti. Un bignami dei metal gods inglesi, che partendo dal recente “Firepower” spaziano nel loro vasto repertorio, che li ha visti in transizione dall’hard rock sabbathiano degli esordi al sound dell’acciaio britannico che li ha resi celebri (“Grinder”, “Sinner”, “Hell bent for leather”…), passando per le soluzioni più rileccate di metà anni Ottanta (qui rappresentate da “Turbo lover”), tornando poi a essere veloci e aggressivi in “Painkiller”, la cui title track chiuderà il concerto. Con l’assenza dei due storici chitarristi K.K. Downing e Glen Tipton, è l’immarcescibile Rob Halford a gestire le operazioni con la sua tipica e incessante marcia avanti e indietro da un lato all’altro del palco e uno screaming che per un uomo di quasi settant’anni è più che soddisfacente. Momento fantozziano quando irrompe sulla scena a bordo della moto, rombante ma palesemente spinta da un roadie che sullo slancio sbuca dal separé dietro al quale avrebbe dovuto rimanere celato. 


Dal metal classico dei Judas Priest si passa a quello moderno degli Avenged Sevenfold, che trovano ad accoglierli un pit gremito di loro sostenitori, pronti a unirsi ai ritornelli e scatenarsi nel mosh. Il cantante M.Shadows, con indosso una maglia di “Jar of flies” degli Alice in Chains, ha voce, eventualità non così scontata per chi è familiare con i live degli A7X. Difficile condividere l’ostracismo dei metallari più oltranzisti, cui non è andato giù lo slot di supporto diretto che ha relegato i Judas Priest nel midcarding. Il gruppo di provenienza SoCal è heavy metal a tutti gli effetti, con Metallica e Iron Maiden tra le influenze più palpabili, seppure rielaborate e affiancate da input provenienti da altri generi. In ogni caso, il concerto è di indiscutibile qualità. Un’ora e un quarto che alterna brani rocciosi e sfrenati a power ballad, con il consueto tributo al batterista The Rev, stroncato da un’overdose a soli ventotto anni nel 2009. Impegnato nell’ennesimo tour d’addio, e c’è da scommettere che anche stavolta s’inventerà qualche magheggio per ripresentarsi in grande stile nel prossimo futuro, il principe delle tenebre Ozzy Osbourne ricorda un po’ il Principe Carlo d’Inghilterra: a settant’anni, non si vedono spiragli affinché possa elevarsi al rango di Re, quindi perché ritirarsi proprio adesso? Fatti i doverosi complimenti al suo staff di chirurgia estetica e consulenza d’immagine (almeno visto dai maxischermi, dimostra una ventina d’anni in meno), il cantante di Birmingham, trasformatosi in personaggio mainstream a tutto tondo con le sue famigerate scorribande televisive, si presenta da solo sul palco per ricevere la prima di una lunga serie di ovazioni. La band che lo supporta è un quartetto che include anche il figlio di Rick Wakeman alle tastiere e alla chitarra ritmica. Curiosità: il padre, tastierista degli Yes, aveva collaborato in studio con i Black Sabbath ai tempi che furono. Sugli scudi, naturalmente, il chitarrista Zakk Wylde, lanciato giovanissimo dallo stesso Ozzy e da poco rientrato in organico dopo qualche anno di assenza. Spesso invasivo con la sua prosopopea da guitar hero, è comunque il pilastro del gruppo e gli si può perdonare uno sfiancante assolo che è pur sempre meno tedioso di quello che, a ruota, intraprende il batterista Tommy Clufetos. Il repertorio è un’antologia live dei principali successi di Ozzy, dall’iniziale “Bark at the moon” a “Mama, I’m coming home”, eseguita nel bis. Spazio anche per tre cover dei Black Sabbath: “Fairies wear boots” e le arcinote “War pigs” e “Paranoid”, quest’ultima a suggello del concerto. Spettacolo circense di puro intrattenimento multigenerazionale. Ozzy che vaga ingobbito per il palco, con un’espressione a metà tra stupefazione fanciullesca e perenne irrequietudine, aizza la folla e fa ascoltare quella voce che migliaia di cantanti hanno cercato di emulare nell’ultimo mezzo secolo, vale in ogni caso il prezzo (esoso) del biglietto. “Il Rock” si conclude con un’ultima fiumana di gente che migra verso le uscite. Notevoli i concerti degli headliner, da dimenticare quasi tutto il resto. Monito, questo, che va tenuto bene in mente se e quando sarà annunciata la prossima edizione del festival.

Testo e foto di Ljubo Ungherelli


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