Non ci faremo fregare di
nuovo… O forse sì?
Ormai
il rock’n’roll è roba per gente di una certa età. Basta guardarsi intorno per
avallare questo assunto. La carica dirompente e rivoluzionaria del genere,
declinato nelle sue varie reincarnazioni nel corso dei decenni, ha pian piano
lasciato il posto a quello che io definisco un circo. Questo è ciò che offrono
al pubblico gli attuali campioni d’incassi del rock’n’roll, signori che hanno
grossomodo l’età dei miei genitori, con rarissime eccezioni di uomini di
mezz’età (Pearl Jam, Foo Fighters, Muse), riusciti ad assicurarsi
“precocemente” il loro posto al sole.
Nella
fattispecie, lo spettacolo circense andato in scena a Casalecchio di Reno ha le
sue attrazioni principali in due rocker ultrasettantenni. Uno è un cantante
tale solo di nome: si dimentica sovente i testi delle canzoni e, peggio ancora,
si dimentica a casa la voce. Le cronache narrano che nel precedente concerto in
Italia, all’Arena di Verona, fu sufficiente una parvenza di diluvio universale
per renderlo afono nel giro di pochi minuti e costringerlo a un’ingloriosa
ritirata dietro le quinte. Per poi essere rispedito a pedate sul palco e
costretto a concludere il concerto per non incappare in penali, richieste di
rimborso dei costosi tagliandi d’ingresso e così via. L’altro è un chitarrista
che ci sente tanto quanto io ci vedo. Praticamente sordo.
Si
dà tuttavia il caso che questi due apparentemente improbabili protagonisti si
chiamino Roger Daltrey e Pete Townshend, e che sotto la sigla The Who, attiva
da cinquantuno anni, abbiano gremito l’accogliente Unipol Arena per uno degli
eventi circensi più attesi dell’anno.
E
come in ogni circo che si rispetti, sono i classici numeri, immancabili e
sempre uguali a sé stessi, che la gente paga per vedere. In primis, le
caratteristiche rullate stile mitragliatrice di Keith Moon. No, fermi tutti. Lui
a quanto pare non è venuto. Al suo posto, incapsulato in una gabbia di
plexiglas, il platinato/quasi albino Zak Starkey, il cui babbo, a sua volta
batterista, era uno dei quattro baronetti di Liverpool.
Altro
numero tradizionale è rappresentato dalla compassata impassibilità del bassista
John Entwistle. No, mi dicono dalla regia che non c’è nemmeno lui. È morto la
sera prima che incominciasse il tour americano del 2002. Townshend, non prima
d’aver bestemmiato l’intero pantheon sumero contro l’incauto collega che
trapassava nel momento meno opportuno, al grido di “The show must go on” assoldava
il rinomato turnista italogallese Pino Palladino, tuttora in formazione, permettendo
al circo di proseguire il suo itinerario.
Presente,
e in gran copia, il numero in cui Daltrey fa roteare in aria il cavo del
microfono. Ogni tanto gli càpita di arrocchettarsi, ma pace. E la sua naturale
controparte, il braccio teso di Townshend che mulina plettrate a getto continuo
(movenza ispirata al lancio della palla da bowling, dichiarò in una vecchia intervista
alla tv inglese). Due gesti entrati di diritto nell’iconografia del rock’n’roll
e mutuati da folte schiere di epigoni.
Ecco,
ora lascio da parte il raziocinio e torno alle ventuno e spicci di sabato 17
settembre 2016. Il circo entra in scena. “State calmi, stanno per arrivare gli
Who”, recita il maxischermo, che in precedenza ha ospitato una bella fotostoria
a scorrimento verticale, con svariate curiosità inerenti alla band, dalla sua
road crew alle chitarre usate da Townshend negli anni, e durante il concerto
offrirà un efficace compendio visivo a quanto messo in musica.
Va
in avanscoperta la carne da macello. Starkey, Palladino (il cui immobilismo non
ha nulla da invidiare a quello del compianto Entwistle), Simon Townshend,
chitarrista rossovestito che si sistema all’estremo opposto rispetto alla
postazione occupata dal ben più illustre fratello maggiore, i due tastieristi e
il direttore musicale.
Per
ultimi si manifestano Daltrey e Townshend. I power chord dell’iniziale “I can’t
explain” sono più che sufficienti a ricordarmi che mi trovo di fronte a uno dei
chitarristi che, per quanto mi riguarda, hanno forgiato il suono che ho amato e
amo tuttora. Al suo fianco metterei Tony Iommi, Ron Asheton, e Jimi Hendrix.
Tranne quest’ultimo, ho avuto l’immenso privilegio di vederli suonare tutti di
persona.
Una
botta emotiva non indifferente. Questo è il dato oggettivo che sovrasta le
sterili considerazioni sullo spettacolo cui sto assistendo.
Dopo
poco più di venti minuti, l’inconfondibile clangore di “My generation” scatena
il primo moshpit della serata. Veterano di un quarto di secolo di concerti
rock, metal, punk e quant’altro, guadagno facilmente posizioni e mi fiondo a
ridosso della transenna. Pete Townshend, uno dei miei idoli, è ad appena un
paio di metri da me.
Il
circo si concede pochissime pause. Durante una di queste, mentre è in corso il
ripescaggio di due brani dal monumentale “Who’s next”, Townshend scherza
col pubblico, asserendo che in molti dovevano ancora nascere quando quelle
canzoni hanno visto la luce. “Bambini!”, grida con dubbio gusto, stanti le sue
note disavventure con la pedopornografia online.
Il
concerto procede mirabolante e quasi senza intoppi. Tra questi, la voce di
Roger, che già a partire da “You better you bet” inizia a perdere colpi. Forse
non per caso, a stretto giro viene proposta una minisuite dedicata a
“Quadrophenia”, dove, dopo la maestosa “5:15”, è Townshend a prendersi il
proscenio, prima interpretando lo splendido blues acustico “I’m one”, quindi guidando
l’estenuante marcia strumentale “The rock”. Sullo sfondo, le immagini tributano
prima un omaggio a Keith Moon e ad altri musicisti scomparsi come
Lennon e Strummer, per proseguire con una sorta di riassunto della storia
moderna, dal disgelo USA – URSS fino alla caduta del muro e ai carri armati di
piazza Tienanmen, dalla tempesta nel deserto alla “guerra al terrorismo” d’inizio
millennio. In mezzo, si torna a ricordare l’altro sodale scomparso, il
“tranquillo” Entwistle. La storia del rock’n’roll che va a braccetto con la
storia del mondo.
Dopo
“Quadrophenia”, è l’altra grande opera rock concepita da Townshend a essere
assaggiata dall’arena bolognese: “Tommy” arriva sottoforma di “Amazing
journey/Sparks”, “The acid queen” e “Pinball wizard/See me feel me”. Inutile
indulgere in elucubrazioni: sto testificando momenti da tramandare ai posteri.
Punto e basta.
La
band resta in scena, senza uscire e tornare per il bis. Gli “amici–nemici”
Roger e Pete hanno lasciato per il finale i numeri più roboanti. E se li
giocano in simultanea, sul climax di “Won’t get fooled again”: l’urlo
lancinante del vocalist e la proverbiale scivolata in ginocchio del
chitarrista, posa che vanta tra i suoi emuli pure un certo Bruce Springsteen. Manca
all’appello il rituale della chitarra sfasciata (a proposito di imitatori: vedi
alla voce Kurt Cobain), che la fotostoria ci spiegava aver perso di senso,
tant’è che si è verificata in appena quattro concerti tra 2000 e 2004 e mai più
da allora.
Il
circo toglie le tende dopo oltre due ore dove il rock’n’roll, ridotto a recita quasi
autoparodistica, resta tuttavia in grado di regalarci quelle brucianti
sensazioni di energia e purezza che, senz’altro annacquate dalla macchina da
soldi che sono oggi The Who, hanno contraddistinto questa musica dai suoi
albori, e a riprova di ciò, sono i tanti giovani accorsi a stemperare la
nostalgica liturgia dei bei tempi che furono da parte degli spettatori più
maturi.
Pete
Townshend scriveva di sperare di morire prima di diventare vecchio. O ci ha
fregati tutti quanti, oppure davvero la senilità ancora non gli appartiene.
Qualunque sia la soluzione al quesito, poco importa: altri mille di questi giorni!
Testo e gallery di Ljubo Ungherelli
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