Ecco "Un passo indietro rispetto al carismatico frontman", il capitolo 17 di "Ultimo tour sulla Luna", il nuovo romanzo di Ljubo Ungherelli pubblicato a capitoli con licenza Creative Commons, in esclusiva sul blog di Riserva Indie ogni giovedì dal 4 Febbraio. Guy e Vicni, in arte 2 Dualità, stanno ultimando il tour finanziato dai fans con una campagna di crowdfunding ed è il momento di confrontarsi su quello che sarà il loro futuro. Vi ricordo che potete ritrovare tutti i capitoli già pubblicati sulla tab dedicata al romanzo nella home page di questo blog.
Capitolo 17
Un passo indietro rispetto al
carismatico frontman
Abusando
di un luogo comune, incendiammo il posto. Né il fatto che Guy fosse ubriaco
perso, né il clima oppressivo che si stava creando tra noi: nulla poteva
intaccare la nostra intesa sul palco. Era come se un fluido magico rimbalzasse
tra me e lui, facendoci sprigionare un’energia pazzesca.
Avevamo
iniziato non molto dopo esserci alzati da tavola. Io mi ero cambiata in fretta
e furia, mettendomi il tailleur con pantalone come a Spoleto. Guy aveva
mantenuto la promessa: s’era presentato con una camicia sgargiante che
ricordava le giacche dei toreri, verde con risvolti dorati su colletto e
maniche, e alla prima pausa, dopo tre pezzi, se l’era tolta.
Per
me era facile lasciarmi trascinare dalla sua carica, sentivo che avrei potuto
suonare per ore senza fermarmi. In più, le occhiate intense con cui
radiografavo il pubblico fino a trapassarlo con la precisione di un bisturi
(stupida metafora chirurgica scritta da una tipa in un live report pubblicato online), erano mirate alla caposala, che
continuava ad aggirarsi là intorno.
Il
nostro impeto era stato ricambiato da chi era venuto a vederci. Gli spettatori
ci fecero sentire il loro calore alcolico. Dai tavoli si levava un gran vociare
quando finiva una canzone, e ben presto si levarono direttamente loro,
pigiandosi a ridosso del palco, tanto che avevo temuto che una caduta domino ce
li scaraventasse contro, sfasciandoci ogni cosa. Ma in modo o nell’altro erano
riusciti a contenere l’euforia a un livello a noi non nocivo.
Guy,
circondato da forsennati, era nel suo habitat naturale. Interagiva con le
persone, moltiplicava le pose, si muoveva come un giocoliere con chitarra a
tracolla, cantando e saltando contemporaneamente, fino a interpretare un’intera
strofa di “Continua” fuori dal microfono, sulla faccia di chi gli stava di
fronte.
Io
su “Continua” mi ero alzata in piedi, dando le spalle al pubblico. Dovendo
ottimizzare gli spazi, avevamo incassato la tastiera contro il fondo del palco.
Così girata, ancheggiavo con un moto lento e circolare, al tempo della canzone.
Guy mi ripeteva a nastro quanto ai ragazzi piacesse vedermi fare quelle mosse.
Io non riuscivo ad abituarmi all’idea che gli uomini potessero eccitarsi con
una come me. Eppure pareva essere così, quindi sfruttavamo questo mio presunto
lato sexy, anche nelle sessioni fotografiche. Era buffo: in quasi ogni foto
Guy, che era il cantante oltre che un bellissimo ragazzo, restava in secondo
piano, a volte addirittura un po’ sfocato.
Poi,
sul palco, lui riprendeva il timone di comando ed io lo seguivo. Persino sui
pezzi cantati da me, come “Asma cardiaca”, il suo sorriso spadroneggiava su
qualunque altro dettaglio. Per la mia ritrosia a stare sotto i riflettori,
avere accanto qualcuno che catalizzava l’attenzione era stato un toccasana. Avevo
il mio spazio, la mia visibilità, ma ero felice dello status di batterista
sopra le righe ma sempre un passo indietro rispetto al carismatico frontman di
2 Dualità.
Ci
furono parecchie sbavature, ma la nostra performance era così trascinante da
ovviare agli errori di esecuzione. Finì che ci chiesero i bis. Rifacemmo “Quasi
uguali quasi diversi”, con la fettina di area sottopalco che ribolliva di
sudore e aromi di vini e birre. Siccome non ci volevano fare andar via,
servimmo un’ultima portata: la cover di “Seven nation army” dei nostri padrini
White Stripes. Sul ritornello strumentale, tutti si scatenarono col popopopopopo, tormentone passato dai
locali per concerti agli stadi di calcio.
Fu
uno dei nostri migliori concerti, non solo del tour sulla Luna, ma in assoluto.
Tuttavia l’atteggiamento dei presenti, come ci aveva spronato in sede live, ci
affossò subito dopo. Un minuto più tardi, infatti, i due musicisti esaltati
dalla folla non erano più cagati da nessuno. Vendemmo a malapena un cd. Finita
la musica dal vivo, il Pino Wine Bar era diventato un normalissimo pub, con due
schermi televisivi accesi su canali sportivi e un sottofondo preso in buona
certezza da qualche compilation di evergreen,
di quelle che trovavi nelle ceste di cd in superofferta.
Guy
si era già sganciato, vedendosi impossibilitato nelle pubbliche relazioni a
nome del gruppo, ed era andato a piazzarsi su uno sgabello al bancone del bar,
intenzionato a finire di disfarsi nel beveraggio, con Romaldio che continuava
imperterrito a riempirgli il bicchiere.
Io
decisi di smontare il palco e ricaricare la Luna. Nessuno mi dette corda mentre
trascinavo fuori la strumentazione mia e quella di Guy, perciò fu un lavoro
relativamente rapido.
Perfettamente
a suo agio nei panni del beone lombardo–veneto abbrutito, Guy era sempre
piantato dove l’avevo lasciato prima di mettermi a smontare. C’era stata però
una variazione sul tema: non era da solo. Mi avvicinai. Non più di fronte al
bancone, ma di profilo, con un gomito appoggiato sopra, Guy era alle prese con
due ragazze.
Una
aveva i lineamenti indios, i capelli
lisci e nerissimi che non le arrivavano alle spalle, gli occhi scuri come la
pece, il naso schiacciato. Era piccola e fine di corporatura, con i jeans
coperti fino alle cosce da una blusa violacea. Una indios nell’indie.
L’altra
era all’opposto. Alta e robusta, il viso paffuto sommerso da un cestone di
riccioli castani in spregio a chi era costretta a farsi la permanente per avere
la metà di quel volume di capelli. Come molte delle ragazzine hipster che
vedevo in città e nei posti dove suonavamo, girava fieramente con costosi abiti
vintage: borsa da pagarla a rate,
gonna di stoffa a scacchi che le arrivava ai polpacci e pullover anni Sessanta
di cachemire.
Tutt’e
due, dallo stato infervorato con cui si agitavano intorno a Guy, parevano
inebriate quasi al suo livello. Era una scena tutt’altro che rara per un
postconcerto di 2 Dualità. Uno o più esseri di sesso femminile che si paravano
incontro all’affascinante e socievole cantante, che le intratteneva in grande
stile per poi lasciarle a bocca asciutta.
Rispetto
agli standard, però, vedevo due sostanziali differenze. Uno: a un primo screening, quelle potevano non essere
necessariamente attratte solo dagli uomini. E soprattutto, due: Guy era
totalmente andato, e in simili condizioni avrebbe addirittura potuto accettare
proposte di prosecuzione della nottata. Entrai di prepotenza per debellare i
miei timori. La prima contromisura fu quella che usavo di solito: allontanare
Guy con una scusa.
“Tesoro”,
gli dissi, con un vezzeggiativo che non gli rivolgevo mai, “c’è da compilare il
borderò, senti Romaldio e fatti dare
il modulo… In pochi minuti ha fatto”, rassicurai falsamente le tipe che già mi
guardavano di sbieco.
“La
Siae deve arrostire su una grigliata infernale!”, mi rispose, infiorettando il
tutto con una bestemmia che doveva aver metabolizzato dai frequentatori del
Pino Wine Bar. Le due tipe scoppiarono a ridere. “Fallo tu se vuoi. Scrivici
titoli e cose a caso. Tanto ormai la fine è vicina.”
Fallito
il primo tentativo, m’inserii direttamente nella conversazione, presentandomi
senza aspettare d’essere invitata a farlo.
“Ullüllu”,
mugolò la più massiccia delle due, dandomi mollemente la mano. Quindi esternò
un breve discorso di cui non compresi mezza parola. Guy, dal canto suo,
sorrideva convinto a quell’ammasso di suoni primordiali e si diceva pienamente
d’accordo a metà. Non capiva più un cazzo.
Mi passò un flash davanti agli occhi:
Guy semi incosciente sdraiato sul letto, sormontato da quelle assatanate. Per
la prima volta, provai un fugace senso di invidia, o forse di gelosia, nei suoi
confronti.
Cercai di prender da parte una delle
due, la piccoletta con la carnagione da meticcia, nel doppio intento di
neutralizzare il pericolo che volessero farsi Guy e svagarmi un po’ anch’io con
quella che mi sembrava la più abbordabile.
“Giustizia! Giustizia!”, mi ripeté. Era
persa in un suo trip mentale, su cui cercai di sintonizzarmi al volo. “Questo è
un paese di merda, di ladri e figli di puttana che vanno eliminati. C’è bisogno
di giustizia!”
“Hai ragione, gli uomini sono proprio
dei bastardi”, provai a cogliere la palla al balzo. Giustizia mi guardava, perplessa
nella sua alterazione alcolica. Incaponita nelle sue teorie, riprese il
tormentone.
“Ci vuole giustizia! Ci vuole la pena di
morte! Io sono a favore! E ripetuta più volte!”
“L’ho sempre detto anch’io. Non bisogna
permettergli di farci del male. Tu sei un fiorellino che aspetta solo d’esser
colto. Ma non dalle mani lorde di questi grezzi. Tu meriti di meglio…”
Mi avvicinai ulteriormente, pronta al
successivo step. Fosse allontanarci
assieme, o intanto sfiorarle le labbra con le mie e vedere come reagiva.
“No!”, si ritrasse lei con uno sdegnato
passo indietro. “Finché non c’è l’assoluta certezza della colpa c’è la
presunzione d’innocenza. La giustizia si basa su questo principio, altrimenti
non c’è giustizia. Non possiamo abbassarci al livello delle bestie solo per la
sete di giustizia da far west. Dobbiamo vederci chiaro prima di sparare
sentenze e sbattere il mostro in prima pagina.”
L’improvvisa sterzata garantista di
Giustizia mi tarpò le ali. Tipico delle donne sceme, dare seconde, terze e
quarte possibilità agli uomini stronzi di farle soffrire. Incredibile come il
semplice atto di ubriacarsi scatenasse nelle persone le pulsioni più varie.
Sempre a mio sfavore, purtroppo.
Fresca di rimbalzo, con la coda
dell’occhio vedevo Ullüllu che rideva con i denti sporgenti, dando vigorose
pacche sulle spalle di Guy e facendoglisi sempre più vicina, salvo poi
distaccarsi scontrosamente dopo pochi secondi e squadrarlo con aria di
altezzosa superiorità. Lui non mutava la sua maschera sorridente e
collaborativa, sia che Ullüllu gli alitasse sulla bocca, sia che si
divincolasse quasi disgustata.
Pur fallendo nell’imbrocco, ero
perlomeno riuscita a scoraggiare Giustizia e Ullüllu. Forti di un rigurgito di
bigottismo che neppure i fumi dell’alcol avevano smantellato appieno, se ne
andarono poco dopo. Guy non fece tentativi di trattenerle, né protestò quando
proposi di levarci di torno a nostra volta.
Romaldio per la notte ci aveva lasciato
le chiavi di casa sua. Guy, ormai prossimo al coma etilico, s’era buttato sul letto,
ancora vestito; disse alcune frasi senza senso, poi si chetò, sprofondato di
colpo nel sonno. Nonostante il nostro rider
specificasse che dormivamo in letti separati, la camera (l’unica stanza che
Romaldio aveva lasciato a nostra disposizione, oltre al bagno; le altre porte
erano chiuse a chiave) aveva un letto matrimoniale. Poco male per una volta,
forse l’ultima. Ne approfittai per prendermela comoda. Ero stanchissima, anche
a livello mentale, ma sonno poco. Mi spogliai completamente e andai in bagno.
Quella volta, alla fine della serata
organizzata dai tizi del Platino Picchiatore, invece ero vestita. Le poche
ragazze che frequentavano “alla pari” i maschi sul loro stesso terreno, e
parlavano come loro, e bevevano quanto loro, si facevano l’assurda fama
d’essere disponibili senza nemmeno dover chiedere troppi permessi per
coinvolgerle.
Mi avevano tirato su la gonna e scostato
le mutandine. Poi non avevo più visto nulla, dato che qualcuno mi aveva
sollevato la maglia, incastrandomela dietro la testa. Indebolita dall’alcol e
colta di sorpresa, non ero riuscita ad avere alcuna reazione. Avevo solo chiuso
gli occhi e stretto i pugni, mentre quelli a turno si muovevano dentro di me, e
intanto varie mani mi tenevano ferma e mi toccavano da tutte le parti. Ero
stesa su un cubo, dove durante la serata la gente si sedeva per fare una sosta
dalle danze, bere e magari tra una chiacchiera e l’altra tentare qualche
approccio con chi era lì accanto.
I giorni successivi, non riuscivo a
capacitarmi di cosa mi fosse capitato. Se fosse stato un sogno, un incubo, se
fossi stata al gioco o se l’avessero fatto contro la mia volontà. L’unica cosa che
avvertivo con chiarezza era il senso di colpa e di disgusto verso me stessa.
Mi
ero attaccata a Guy perché avevo il sentore che fosse uno dei pochi uomini che
non mi avrebbe mai fatto del male. Avevo avuto ragione. In più, eravamo stati
travolti da una relazione musicale che c’aveva portati dove mai ci saremmo
immaginati di arrivare.
Guardai
la mia immagine riflessa allo specchio. Vidi una donna provata tanto da brutti
ricordi quanto da un presente che stava per diventare passato. Non vidi le
curve che, quando mi alzavo dalla batteria, facevano sbandare gli incauti
automobilisti che venivano ai nostri concerti (altra frase del cazzo scritta su
un sito di musica indie). Vidi il bulbo superiore della clessidra con ancora
pochissimi granelli di sabbia. Il resto era scivolato di sotto.
Cercai
di non puntare più gli occhi verso lo specchio, che mostrava impietoso il mio
corpo nudo e indifeso. Tornai in camera, dove avevo lasciato accesa la luce sul
comodino dalla mia parte di letto. Guy respirava profondamente, devastato dal
troppo bere al punto di non essersi levato nemmeno le scarpe prima di crollare.
Per quanto involontaria, era un’immagine perfetta della sua contraddittoria
morale nei miei confronti: mi parlava nei minimi dettagli delle sue esperienze
sessuali, però si vergognava a farsi vedere in deshabillé. E lo stesso s’inalberava se mi scoprivo troppo davanti
a lui. Chissà se anche lui aveva represso la curiosità di spiare l’intimità
della persona con cui divideva ogni altro aspetto della vita.
Entrai
sotto le coperte, con un po’ di difficoltà essendoci lui che le teneva in
tirare da sopra. Prima di girarmi e provare a dormire, lo accarezzai sulla
guancia. Non ebbe alcuna reazione. A me invece stava venendo da piangere.
Testo di Ljubo Ungherelli
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