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giovedì 17 marzo 2016

ULTIMO TOUR SULLA LUNA // CAPITOLO 7: SE HAI FEDE, NON DEVI PREOCCUPARTI D'ALTRO - UN ROMANZO DI LJUBO UNGHERELLI


Ecco "Se hai fede, non devi preoccuparti d'altro", il settimo capitolo di "Ultimo tour sulla Luna", il nuovo romanzo di Ljubo Ungherelli pubblicato in esclusiva dal blog di Riserva Indie ogni giovedì dal 4 Febbraio. Guy e Vicni prima di dirigersi verso Spoleto, dove li attende un nuovo live, fanno tappa a Firenze per essere intervistati dall'inviato del potente sito Indie Italie. Vi ricordo che potete trovare tutti i capitoli pubblicati anche sulla nostra tab nella home page del blog.


Capitolo 7
Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro

Guy ancorò la Luna nel parcheggio sotterraneo. Avevamo appuntamento vicino alla stazione centrale, in un’area che ospitava fiere e convegni. Il luogo di ritrovo era il piazzale antistante. Non saremmo rimasti a Firenze per più di un paio d’ore. Il tempo dell’intervista e di mangiare qualcosa, poi ci aspettava il terzo concerto del tour, a Spoleto. Avevamo studiato un piano per cercare di sabotare l’intervista e ridicolizzare gli intervistatori e chi ce li aveva mandati.
“Mi raccomando, abbiamo fatto salti mortali per avere quest’intervista su Indie Italie. Lo so che vi stanno sulle balle, ma ognuno deve fare la sua parte. Noi facciamo la nostra, voi fate la vostra e loro fanno la loro.” Così c’aveva in sintesi ammoniti la tipa dell’ufficio stampa. C’aveva chiamato in mattinata, appena ripartiti da Madonna Dell’Acqua. Aveva chiamato Guy. Chiamava sempre Guy. Che mentre guidava, aveva messo il vivavoce per farmi ascoltare la ramanzina.
“Tutto sottocontrollo, mia cara”, s’era beato lui, dandomi di gomito con l’intenzione di non farmi intervenire. “Ho già messo la museruola alla mia collega, che è notoriamente la metà incazzosa e antipatica del gruppo, e mi palleggerò i nostri eroi nella maniera migliore. Faremo la figura dei santarellini dell’indie che ogni mamma vorrebbe vedere maritati al proprio figliolo… O figliola, sì, certo, a seconda dei casi. Abbi fede!”
“Io ho fede”, aveva risposto lei. “Però dicevo…”
“E allora basta! Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro, tesoro. Ti faccio chiamare da Vicni appena ci rimettiamo in cammino. Così ti racconta lei, che non ha peli sulla lingua. Bacioni forti e chiari!” E aveva troncato la telefonata, prevenendo eventuali repliche.


Indie Italie era il male. Negli anni, era diventato il sito musicale italiano più autorevole del settore. I peggiori trend che dilagavano nel nostro ambiente erano fomentati sulle sue pagine, imponendo a tutti di fare musica secondo quei diktat del cazzo. Chi non si adeguava veniva emarginato a colpi di stroncature o, peggio, di omertà. Non essere menzionati da Indie Italie equivaleva a non avere rilevanza nel giro. Era addirittura meglio essere stroncati, anche in modo trasversale, tipo: “Il gruppo x prende il peggio dalle sonorità del gruppo y che già fa schifo di suo”. Era perlomeno un segnale d’attenzione.
Il sistema vagamente mafioso con cui amministravano la musica era accettato da tutti gli addetti ai lavori, musicisti compresi. Noi in realtà non avevamo problemi a prestarci a quel meccanismo, Guy in particolare era disposto a qualunque compromesso in cambio di visibilità, e io mi adeguavo.
Forse gli attriti, almeno da parte nostra, erano iniziati quando avevamo pubblicato le prime cose, ricevendo attenzioni dalle principali riviste e webzine di settore, ad eccezione di Indie Italie. Da allora, loro avevano continuato a ignorarci e noi, un po’ per ripicca, non avevamo fatto nulla per compiacerli e trovare spazio sul sito.
A comandare la baracca c’era Fosco Quiličić, uno dei personaggi più sgradevoli che avessi mai avuto la disgrazia d’incontrare. Per fortuna solo di sfuggita in un paio d’occasioni. Era gonfio di boria oltre che nel fisico, con la faccia da addormentato che però si sente in dovere di spiegarti la vita. La cosa peggiore era doverlo seguire su Facebook: condivideva ogni singola cazzata della sua vita, connesso ventiquattrore a raccontare storielle stupide con protagonisti lui stesso, la compagna e la figlia piccola. Ognuna di queste perle era accompagnata da foto altrettanto nauseanti, con i medesimi tre soggetti in campo, e Fosco Quiličić che giganteggiava tra le sue “preziose creature” (le chiamava così ogni volta) con l’aria da ebete e il viso tagliato all’altezza della fronte per nascondere la pelata. Ovviamente, nessuno di questi orrendi post riceveva meno di duecento like. E raffiche di commenti ossequiosi, specie di musicisti, anche importanti, che gli leccavano spudoratamente il culo.
Con quelle minacciose premesse, osservammo due tizi che ci venivano incontro a colpo sicuro. Noi, i musicisti che dovevano essere intervistati, eravamo arrivati con una decina di minuti di ritardo. Loro, infimi redattori, carne da macello mandataci contro dal subdolo Fosco Quiličić, si presentarono quasi mezzora dopo l’orario concordato.
Nella peggior tradizione, il tipo camminava tre passi avanti alla collega. Era agghindato come l’ultima ruota del carro di una gang di rapper dell’hinterland malfamato di una qualunque metropoli. Il clima era mite, sicché non aveva la giacca ma solo una felpa di almeno due taglie più larga e il cappellino con la visiera all’indietro. Sotto, pantaloni verdi multitasca neanche dovesse andare a pesca dopo l’intervista. Per il resto, il concetto di nerd gli stava generoso. Aveva gli occhialoni squadrati tanto in voga tra i giovani, che facevano sembrare cretine persino le ragazze più interessanti, mentre gli uomini ci facevano tranquillamente la figura dei babbei. Lui infatti ci faceva tranquillamente la figura del babbeo.
Cercai di distrarmi tramite la contemplazione della tipa. Mi resi conto che camminava a ruota di quel tordo perché aveva evidenti difficoltà di movimento. Era impacchettata in un abitino inguinale giallo canarino dove non sarebbe passato uno spillo, tanto era attillato. Aveva i capelli corti, nerissimi, con la frangetta, e orecchini che facevano pendant con la collana. E col vestito. Gli occhi parevano comunicare un misto di fastidio e disinteresse.
“Bene ragazzi”, esordì Varagano senza neppure scusarsi per il ritardo. Aveva la voce nasale e un accento indefinibile, non sembrava toscano. “Indie Italie, per volere del nostro direttore Fosco Quiličić, ci ha mandato fino a Firenze per intervistarvi e farvi delle foto per un articolo che uscirà sul sito.”


“Grazie d’averci dedicato un po’ del vostro tempo, un po’ del vostro spazio, un po’ di voi e un po’ di noi, insomma, le pari opportunità, le quote rosa”, gli rispose Guy cantilenando. “A proposito, come se la passa il buon Fosco Quiličić? È da parecchio che non lo incontro in giro.”
“Sì, benone”, tagliò corto Varagano, sempre in quel modo loffio che avrebbe reso difficile l’attuazione dinamica del nostro piano. Di primo acchito, dava l’impressione che se uno gli avesse dato un cazzotto, avrebbe manifestato la reattività di un sacco da allenamento per pugili. “Vi faremo un po’ di domande, e nel frattempo vi faremo delle foto, e poi se ci sarà ancora tempo faremo un breve shooting qui davanti. Proprio per questo sono venuto insieme a Erbafel, la bravissima fotografa ufficiale di Indie Italie.”
“Grazie, Varagano”, gli disse lei con noncuranza, frugando con gli occhi dentro la borsetta, che teneva appesa a una spalla, mentre l’altra sosteneva la tracolla della borsa con l’attrezzatura fotografica.
“Grazie, Varagano”, le fece eco Guy. Pure io mi accodai.
“Abbiamo preso il treno stamattina presto per essere in tempo qui a Firenze e intervistarvi per Indie Italie”, tenne a precisare ancora Varagano, forse per farci pesare che s’erano abbassati a tanto per gente come noi. “Allora, comincio da te, Gài…”
Ghì!”, lo corresse immediatamente lui. Per un attimo, calò il gelo. Persino Erbafel smontò dal piedistallo per assumere un’espressione accigliata.
Ghì?”, riuscì infine a domandare Varagano.
“Sì, Ghì. Non Gài. Il mio nome si pronuncia alla francese. Ghì”, ripeté un’ultima volta.
“Pensavo che si pronunciava all’inglese.”
“Pure io lo pensavo. Per questo canto in italiano.”
“Certo”, borbottò Varagano. “Erbafel, tu quando vuoi inizia pure a fare le prime foto, anche a noi tre tutti insieme.”
“Grazie, Varagano.”
“Dicevo, Guy, questo è il vostro secondo album.”
“Sì, questo”, rispose Guy, guardandosi attorno per cercare l’oggetto di cui gli veniva domandato. Non riuscì a trovare il nostro secondo album nei paraggi.
“Che cosa vi ha spinto a registrare un nuovo disco?”
Chi ci ha spinto? Beh, è una lunga storia, sai com’è…”
“Guy, ti ha chiesto che cosa ci ha spinto a registrare un nuovo disco, non chi!”, intervenni io.
“Ma che ne sai tu di chi o cosa ci ha spinto? Donna!”
“Infatti lo ha chiesto a te, mica a me. E rispondigli allora!”
“Certo che gli rispondo! Nel nostro primo disco avevamo esplorato uno spettro sonoro derivante più che altro dalle nostre precedenti esperienze musicali e dai nostri ascolti di gioventù. Col passare del tempo, ci siamo resi conto che avevamo la possibilità di arricchire la nostra musica, non solo grazie alle royalty, ma anche con influenze non necessariamente riconducibili ai nostri background. ‘Due di coppia’ è nato sotto questa stella.”
“Ma il primo disco aveva quelle vibrazioni roots urbane che su questo mancano completamente”, s’inserì Erbafel. Varagano non fece neppure caso a quell’uscita senza senso. Guy invece colse l’occasione per ricamarci sopra.
“C’hai sgamato! In realtà, è colpa del viaggio di tre mesi che Vicni mi ha costretto a fare da una costa all’altra della Corea del Nord. In quel lasso di tempo, abbiamo sviluppato un nuovo approccio alla musica, che secondo me è tutto di guadagnato, ma inevitabilmente qualcosa del vecchio repertorio è stato accantonato in favore del mood che hanno adesso i pezzi di 2 Dualità.”
“Vicni, anche tu credi che questo vostro viaggio è stato determinante per lo sviluppo della vostra musica?”
“Di sicuro”, gli risposi. “Anche perché io ho costretto Guy a fare questo viaggio, ma lui da solo. Io sono rimasta a casa a lavare e stirare, ma soprattutto a scrivere musica e sperimentare nuove sonorità nel mio home studio. Quando Guy è finalmente rientrato, la preproduzione era già bella che fatta. Lui ha aggiunto le melodie, i testi e ha arrangiato qualcosa in modo diverso.



Andammo avanti a giostrarci Varagano con disinvoltura. Lui non aveva nulla da obiettare alle nostre argomentazioni, per quanto fossero assurde.
“Noi di Indie Italie siamo venuti fino a Firenze per intervistarvi anche perché voi siete nel corso di un tour molto particolare, realizzato tramite una colletta online.”
Crowdfunding”, precisai io.
“Certo”, annuì Varagano. “I vostri fan vi hanno aiutato a realizzare questo tour di poche date, e in cambio hanno ricevuto delle ricompense…”
“È stata un’esperienza fantastica!”, lo interruppe Guy, impedendogli di fare la domanda. “I nostri sostenitori hanno fatto a gara di velocità per aiutarci a tirar su questo ‘Tour sulla Luna’ di sette date in una settimana. Siamo stati bravi anche noi a fare una campagna efficace, con ricompense originali.”
“L’idea della fornitura di cibo per gatti 2 Dualità è un colpo di genio!”
“Infatti l’ho avuta io. Pensa, nei primi due concerti del tour sono venuti in diversi a ritirare le scatolette, e si sono portati dietro il gatto, nascosto in uno zaino per non avere menate all’ingresso. Che teneri! Noi li adoriamo, i gatti!”
“Noi adoriamo anche gli uomini. E le donne”, dissi io.
“Un giorno però dovremmo fare un concerto davanti a un pubblico composto esclusivamente da gatti”, propose Guy.
“Non sarebbe male. Potrebbe rivelarsi più divertente rispetto ad alcuni concerti che abbiamo fatto in passato”, mi accodai.
“Ma le ricompense migliori erano senza dubbio quelle in cui si poteva ricevere in cambio dei propri soldi un lungo bacio in bocca da uno di noi due!”
“Però questa cosa dei baci è una roba sessista”, esclamò Erbafel, continuando peraltro a scattare foto in modo compulsivo.
“Secondo me c’è differenza tra sesso e sessismo. Così come c’è differenza tra imbecille e imbelle.”
Il ragionamento algebrico di Guy non trovò opposizione né in Erbafel, che continuò a fare la superiore, né in Varagano. Il quale, non avendo più appigli, piazzò il domandone finale.
“Progetti futuri?”
“Se ne avessimo, non saremmo qui a fare i musicisti, vivendo alla giornata tra un tour e un disco, tra una serata al pub e una riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per l’affitto della sala prove…”
“Guy, la domanda era sui progetti futuri come gruppo”, lo rimbeccai.
“Certo… i progetti futuri. Tutta la trafila che abbiamo fatto finora, comprese la serata al pub e la riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per l’affitto della sala prove. Possibilmente più in grande. E così via. Questa è la nostra vita, questo vogliamo continuare a fare.”
La sessione fotografica non durò più di dieci minuti. Erbafel non aveva voglia di metterci a nostro agio e non ci dava alcuna indicazione. Noi stavamo lì e lei scattava, in piedi eretta oppure chinandosi e allargando le gambe in modo robotico ma reso comunque lascivo dalla sua innegabile bellezza.
Quando ci riavviammo verso la Luna, Guy fece un verso gutturale simile a un conato di vomito.
“Che gente brutta”, commentò disgustato quanto lo ero io. “Il ragioniere dell’hip-hop e la principessa sul pisello del teleobiettivo.”
“Però li abbiamo cucinati per bene. Il nostro piano è filato liscio!”
“Come l’olio! Ottimo lavoro, mia sola divinità sconsacrata! Due!”
“Dualità!”, gridai, facendo rimbombare la mia voce nella struttura tubolare del parcheggio sotterraneo.




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