Ecco "Nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali", il quarto capitolo di "Ultimo tour sulla Luna", il libro di Ljubo Ungherelli pubblicato ogni giovedì in esclusiva sul blog di Riserva Indie. Guy e Vicni continuano il loro tour e si apprestano a salire sul palco dopo l'opening act degli Agnelli Tonnati. Vi ricordo che potete leggere i capitoli già pubblicati cliccando qui.
Capitolo 4
Nella bolgia dei nuovi idoli
adolescenziali
“Hanno
finito, grazie al cielo in terra.”
Il
sollievo di Vicni era comunque distratto dalla contemplazione compulsiva dello smartphone.
“Duecentododici
partecipanti confermati”, mormorò scorrendo la pagina dell’evento su Facebook.
“Quanta gente ci sarà stata in sala mentre suonavano gli Agnelli Tonnati? Una
sessantina?”
“Più
o meno”, concordò Guy. “E una ventina fuori a fumare. E quelli che devono
ancora arrivare. E quelli che arriveranno dopo che avremo finito.”
Si
erano rintanati in camerino dopo aver seguito metà abbondante del concerto
degli Agnelli Tonnati. Il Sandy’s non era enorme, cosicché il colpo d’occhio
era lusinghiero anche con un’affluenza non da tutto esaurito.
Ulvezio,
come prevedibile, si era esibito con la medesima camicia che aveva a inizio
serata. Solo gli occhiali erano spariti. Per il resto, cercava di gigioneggiare
tra un brano e l’altro, raccontando storielle sconnesse dalle canzoni che
precedevano e seguivano i suoi monologhi. L’esecuzione di tutta la band,
invece, era piuttosto formale e didascalica.
Il
problema degli Agnelli Tonnati era l’esasperato adeguamento ai dogmi dell’indie
tricolore: suonavano, cantavano e somigliavano ad altri triliardi di gruppi e,
cosa peggiore, non avevano nulla che li facesse spiccare. Facevano bene il loro
compitino, intrattenevano il pubblico e fine.
2
Dualità, paradossalmente, soffrivano del problema opposto. La loro miscela
d’influenze era fin troppo eclettica, tanto che il management spingeva perché
definissero il sound in una direzione meglio delineata. E tale direzione avrebbe
preferibilmente dovuto esser più confacente agli ascolti basilari del pubblico
indie.
Partendo
dal garage rock’n’roll più essenziale, Guy e Vicni avevano iniziato ad arricchire
le composizioni con uno spruzzo di folk danzereccio che tanto andava nelle
feste universitarie, rivestito da una patina electro, grazie alle tastierine
synth lo-fi e ai campioni che Vicni manovrava unitamente alle bacchette della
batteria.
A
decretare la loro maggior fortuna, tuttavia, era stato senz’altro l’innesto di
furbeschi ritornelli melodici, retaggio della migliore o peggiore tradizione
del pop italiano da classifica. Guy si divertiva un sacco a scrivere in quel
modo, gli riusciva facile e non aveva remore nell’esplorare un mondo che né lui
né nessuno nella sua famiglia o nel suo giro aveva mai apprezzato più di tanto.
Non
a caso, le recensioni si focalizzavano su quell’aspetto: due righe sulle
sonorità sgangherate e vagamente vintage,
sugli intrecci di voci maschile e femminile, quindi partiva il florilegio sul
potenziale “da classifica” di alcuni pezzi, uno su tutti “Quasi uguali quasi
diversi”, che aveva beneficiato di svariati passaggi radiofonici e figurava in
qualche dj set alternativo.
Spesso
veniva adombrato il ragionamento secondo cui, con i debiti aggiustamenti e una
produzione di un certo tipo, 2 Dualità avrebbero potuto lanciarsi a capofitto
nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali che si davano il cambio ogni tot
mesi. Quella strada, in Italia, passava soprattutto per i talent show. Ne avevano discusso, non escludendo nulla. La
barzelletta dell’indie italiano era proprio l’essere underground per necessità
e non per convinzione, pronti a tutto per saltare sul carrozzone qualora ve ne
fosse l’opportunità.
Il
riflusso che dai tardi Ottanta alla prima metà dei Novanta aveva condotto alla
situazione degli anni Dieci del nuovo millennio era impressionante: in Italia,
il sottobosco musicale era dominato da gente che suonava tale e quale a chi
stava nel mainstream. Quasi nessuno si azzardava a proporre sonorità meno
standard, e chi lo faceva, era bacchettato come anacronistico e bisognoso di un
rapido svecchiamento per destare l’interesse del pubblico. Gli unici in grado
di sopravvivere erano i nomi già affermati da anni, il cui status gli
consentiva di campare di rendita delle glorie passate. Se viceversa mettevi su
una band nel 2016, o facevi indie o cantautorato o avevi le gambe segate.
“Per
sempre! O finché dura!”, esclamò Guy. Erano pronti a salire sul palco. Già da
qualche ora vi avevano apposto il loro fondale, un drappo nero col nome del
gruppo scritto in caratteri dorati. Alle estremità stavano le teste di due
gatti, ciascuno di profilo rivolto verso l’interno, con le fauci spalancate,
come fossero in procinto di papparsi 2 Dualità in un sol boccone.
Proseguendo
nel rituale, porse entrambe le mani a Vicni, che gliele strinse, quindi ne
lasciò libera una. Mano nella mano, senza quasi rendersene conto si ritrovarono
di fronte al pubblico.
“Ehi!”,
esordì Guy a mo’ di prova microfono. Quindi imbracciò la chitarra e senza
ulteriori cerimonie si girò verso Vicni e attese che lei battesse il tempo con
i quattro canonici colpi di bacchetta.
La
lunga permanenza in camerino gli era servita anche per cambiarsi e indossare i
vestiti di scena. Guy si era portato dietro una camicia diversa per ognuno dei
sette concerti. Al Sandy’s di Genova ne sfoggiò una di seta rossa, con solo il
bottone più in basso attaccato, di modo da scoprire il torace rifinito e
bianco. A ventitré anni era glabro come un dodicenne. Il suo look da uomo
vissuto intrappolato nel corpo di un ragazzino piaceva alle ragazze, e la sua
posizione di frontman lo avrebbe senz’altro agevolato in tal senso.
In
testa aveva un improbabile cappello da cowboy, calato stretto sulla fronte
temendo gli cadesse mentre suonava. Sotto, pantaloni neri di pelle attillati.
Ne aveva visti portare di simili a Jon Spencer e Courtney Love.
Vicni,
che sedeva alla sua sinistra, per il debutto aveva optato per uno dei tre look
che avrebbe alternato durante il tour. Nient’altro che una corta sottoveste
nera; spalle, gambe e decolleté erano ben in vista. Le scarpe col tacco non
erano il massimo per suonare la batteria, ma ormai c’era abituata. Il trucco
era abbastanza ordinario, nero intorno agli occhi e rosso fuoco sulle labbra.
Suonarono
tre pezzi senza soluzione di continuità, quindi fecero una pausa. Guy si tolse
il cappello, facendo al contempo un inchino al pubblico che li stava
applaudendo, quindi si rassettò i capelli con la mano. Vicni si alzò dal suo
sgabello e lanciò degli sguardi conturbanti in direzione delle prime file, che
pure si tenevano a distanza di tre–quattro metri dal palco.
Riattaccarono
con intensità ancora superiore. Avevano impostato la scaletta di modo che i
cinquanta minuti di concerto fossero un ottovolante di ritmi e atmosfere. Con i
primi due brani erano andati in crescendo, pigiando sul lato più rock’n’roll,
per poi piazzare un ballabile elettronico e, a seguire, un episodio più smaccatamente
pop e una disorganica ballata lo-fi, “Asma cardiaca”, dove la vocina squillante
di Vicni si elevava a cantante principale, mentre il comparto strumentale era
costituito da ukulele, tastiera e un quasi impercettibile loop di batteria
elettronica.
Come
ovvia logica commerciale, avevano proposto canzoni per lo più da “Due di
coppia”, concedendo meno spazio al disco d’esordio.
I
presenti avevano applaudito, con compostezza, restandosene per lo più fermi, a
parte chi andava e veniva da bar e/o area fumatori. Ordinaria amministrazione
in situazioni del genere.
“Quasi uguali quasi diversi” era posizionata
al terzultimo posto, una sorta di chiusura del set regolare prima dell’uscita e
del ritorno per il bis. Guy aveva prolungato la coda strumentale in stile anni
Settanta. Vicni l’aveva seguito in quella sorta di jam, fino al dissonante
feedback conclusivo. A quel punto, anziché salutare e tornare dietro le quinte,
2 Dualità avevano proseguito con ciò che restava della scaletta.
“Continua”,
una ballata piano e voce che mostrava il lato più romantico del Guy
compositore, era sfumata nei power chord
del pezzo che portava il loro nome. Vicni doveva frettolosamente suonare le
ultime note di “Continua” e rimettersi in posizione per quell’ultima, poderosa
cavalcata. “2 Dualità” rappresentava l’impeto del progetto agli esordi, la
rabbia quasi violenta per demarcare le differenze col loro gruppo indie folk.
Eppure, già in quell’embrione deflagrava la sagacia di Guy nell’inzuppare un
brano punk in una melodia cristallina.
Con
Vicni di nuovo in piedi, sexy e ammiccante, e Guy che sorrideva con candore,
tenendo la chitarra dritta parallela al corpo, 2 Dualità incassarono l’ultimo
applauso. Ogni volta la botta d’adrenalina era micidiale. Rincularono nel
camerino barcollando, accaldati e stanchi. Si scambiarono uno sguardo d’intesa,
soddisfatti e pronti a ciò che rimaneva della serata.
Il
tempo di darsi una rinfrescata, che uscirono per allestire il banchetto del
merchandising e incontrare i fan. Al solito, fu Guy ad andare in avanscoperta,
mentre Vicni si attardava sempre qualche minuto in più nel backstage.
Lo
raggiunse nell’anticamera del Sandy’s dove, con una buona illuminazione e il dj
set ovattato, birra alla mano, era già dietro al tavolino imbandito con dischi,
magliette, spille, adesivi e scatolette di cibo per gatti.
Prima
di lei, però, si precipitò un ragazzo ad approcciarlo.
“Grande Gài, complimenti!”, gli disse il tipo, porgendogli la mano.
“Ghì”,
replicò compostamente, ricambiando la stretta di mano, “alla francese, come Guy
Pardies, hai presente?”
“Gerard Guypardies”, chiosò Vicni, incombendo alle spalle del fan con quel calembour privo di senso.
“Eh?”, fece quello, girandosi in
direzione della ragazza.
“Poppa”, poté leggere lei sulle labbra
di Guy. Sorrise, e il tipo, ignaro di tutto, credette forse fosse rivolto a
lui.
“Seratona!”, riprese Guy con entusiasmo,
catturando di nuovo l’attenzione del ragazzo, “e come si suol dire, è solo
l’inizio! Dimmi un po’, sei di Genova o arrivi da fuori?”
Testo di Ljubo Ungherelli
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