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domenica 10 marzo 2024

RICORDANDO SCOTT WEILAND 1967-2015 // "METÀ DELL'UOMO CHE ERO" - TESTO (E FOTO) DI LJUBO UNGHERELLI


Metà dell’uomo che ero
Ricordando Scott Weiland (1967–2015)

1993. L’inizio di questa storia. Un cd preso a noleggio. Un minaccioso manifesto programmatico gridato attraverso un megafono.



2015. La sera del 3 dicembre (fuso orario USA), il grande circo del rock’n’roll perde uno dei suoi funamboli più spericolati.

Scott Weiland, oltre che un autentico campione dello stile di vita autodistruttivo del rock, era un cantante eccezionale, un frontman enormemente carismatico, capace di unire l’aggressività lasciva di Iggy all’innata classe di Bowie, e un paroliere brillante e mai banale, i cui testi affrontano tanto le classiche tematiche introspettive e di relazioni interpersonali, quanto lo scomodo ruolo di marionetta manovrata dallo show business (“Sell your soul and sign an autograph… I wanna die but I gotta laugh”), fino a giocare con le rime in assurdi calembour (“I really love to fish but don’t like superficial people”) che talvolta assurgono a dichiarati nonsense (“All’s I gots is time, got no meaning, just a rhyme”); senza dimenticare la corrosiva parodia del machismo nella celeberrima “Sex type thing” (“Anche a me piace scopare!”, affermava candidamente all’epoca, quasi a discolparsi del messaggio pseudofemminista del pezzo in questione).

Ho amato gli Stone Temple Pilots sin da principio, e non ho mai smesso di ascoltarli. Li ho visti scalare le classifiche di tutto il mondo, pur osteggiati dagli ottusi puristi del grunge, che li accusavano di scopiazzare i big della scena (in realtà, con viscido afflato leghista, non gli perdonavano di essere originari di San Diego, oltre mille chilometri a sud di Seattle). Li ho visti poi risucchiati in una spirale indotta principalmente dall’ingestibilità dello stesso Weiland. Il quale per un ventennio ha tenuto banco nelle cronache musicali e non solo tra droga, concerti annullati, droga, capricci, droga, carcere, droga, rapporti turbolenti con i compagni di band, droga, rehab, droga, violenza domestica, droga, interviste deliranti, droga… Insomma, ci siamo capiti.


Tutto quanto da debita distanza, però. In poche parole, al momento dello split nel 2002, il mio rapporto con gli STP si limitava all’ascolto dei dischi, ai videoclip e agli articoli sulle riviste. Mai stato a un loro concerto. 2004. Il contentino: nel cartellone dell’Independent Days Festival di Bologna, domenica 5 settembre figurano i Velvet Revolver, supergruppo con tre ex Guns N’ Roses, il chitarrista–carneade Dave Kushner e un redivivo Weiland. Nella bolgia delle prime file, mi viene il sospetto che io e l’editor dei miei romanzi, con cui condivido la trasferta, siamo i soli fan degli STP nel raggio di cento chilometri. Per fortuna siamo anche grandi fan dei Guns sicché non ci sentiamo troppo discriminati. Per i primi due pezzi non capisco nulla. La calca è insostenibile. Pian piano riprendo il controllo della situazione.


Weiland è magrissimo, conciato a metà tra Freddie Mercury e Rob Halford, con una mise gay–fetish–nazi oriented. Canta più che degnamente, benché a causa degli abusi di droga abbia da anni perduto quel ruggito che agli esordi lo poneva sullo stesso piano di Vedder e Staley. Ma soprattutto la sua presenza sul palco oscura persino musicisti leggendari come Slash e Duff. Il momento clou arriva al penultimo brano in scaletta: incastrata tra un’acclamata “It’s so easy”, con la partecipazione del fondatore dei GNR Izzy Stradlin, e il singolone “Slither”, ecco una roboante cover di “Sex type thing”. La distanza si è un po’ accorciata, ma non del tutto.


2010. Le speranze si sono riaccese alla fine del decennio. Gli STP si sono riformati nel 2008. Nel 2010 pubblicano un nuovo album. Lunedì 28 giugno è prevista l’unica data italiana, al Carroponte di Sesto San Giovanni, in seguito spostata all’Alcatraz di Milano. La sera precedente rimpatrio da una breve vacanza in Spagna, azzoppato da una lancinante tendinite all’alluce sinistro. L’indomani sono miracolosamente in piedi e pronto all’evento di una vita. A trentuno anni, così come a quindici e a venticinque, e ancora adesso che inizio ad avvicinarmi ai quaranta, sono pressato sotto il palco. La distanza è quasi azzerata. Li ho a pochi metri da me. Dean DeLeo, chitarrista dal gusto raffinato, è l’anima melodica del gruppo. Il fratello Robert pare appena uscito dall’ibernazione: identico, con le stesse movenze dei Novanta. Eric Kretz mi è sempre piaciuto un sacco: batterista di notevole efficacia senza mai strafare. E poi c’è un indescrivibile Weiland: canta, balla, suda copiosamente, si arrampica sugli amplificatori, arringa la folla. Una delle Voci più rappresentative per la mia generazione, il cantante, l’animale da palco, l’icona, l’eroe maledetto, le canzoni immortali del suo gruppo. L’entusiasmo e l’eccitazione, trattenuti per diciassette lunghi anni, mi bruciano il cuore. Il concerto privilegia la qualità a discapito della quantità. Suonano meno di novanta minuti, ma consegnano ai posteri una memorabile serata di rock’n’roll. Il crescendo sulla seconda strofa di “Creep” vale da solo l’intero prezzo del biglietto. Escono di scena sulle note di “Sex type thing”. Rientrano per il bis. Una ragazza del pubblico viene chiamata sul palco per gridare dal megafono il minaccioso manifesto programmatico di cui si diceva all’inizio. Cincischia tragicamente, forse per l’emozione, forse per la scarsa dimestichezza con l’inglese. Nel corso degli anni, ho spesso ripetuto alla persona che era con me quella sera quanto eravamo stati fortunati a vivere un’esperienza simile, che non ero affatto sicuro potesse ricapitarci.



Se questa storia avesse un lieto fine, potrebbe concludersi all’uscita del concerto milanese degli STP, col rientro notturno a Firenze, l’adrenalina a palla e i ricordi vividi impressi sulla pelle. Invece vi chiedo di concedermi giusto il tempo di piangere qualche ultima lacrima, dopo di che il circo potrà ripartire per nuovi mirabolanti spettacoli.

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