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martedì 3 novembre 2020

TRE RACCONTI A 33 GIRI - DISCO 1 : TROUBLEGUM DEI THERAPY? - TESTO DI LJUBO UNGHERELLI


Come un Flaubert trascinato di peso nell’iconografia rock’n’roll. Tre racconti ispirati ai testi di altrettanti LP, ciascuno filologicamente suddiviso in lato A e lato B.


    THERAPY? – TROUBLEGUM (1994)
LATO A: “KNIVES” “SCREAMAGER” “HELLBELLY” “STOP IT YOU’RE KILLING ME” “NOWHERE” “DIE LAUGHING” “UNBELIEVER


Iniziavo lentamente a tornare in me. Conoscevo bene gli effetti di un trip di mescalina. Conoscevo bene gli effetti di un trip di mescalina andato storto. Anche chi mi stava intorno li conosceva. Dai cassetti in cucina erano spariti tutti i coltelli. Chissà dov’erano stati nascosti. Senz’altro era stata una precauzione affinché non li usassi per combinare ulteriori disastri, come già avvenuto durante altri viaggi del cazzo che mi si erano impressi nel cervello a guisa di un tatuaggio fatto di ghirigori incomprensibili. “Hai bisogno d’aiuto”, era il monito della mia ragazza. “Sarebbe meglio tu fossi morto!”, imprecava invece il mio ragazzo. Mi pareva di ricordare discorsi del genere nelle lunghe ore di delirio che avevo attraversato. Eppure non c’era nessuno in casa.
Stramazzai sul divano di sala. Alla soglia dei trent’anni, ripercorrere tutto ciò che mi era capitato mi risultava estremamente doloroso, come ingurgitare una pasticca che a differenza delle altre portava ad amplificare i problemi. Come se ce ne fosse bisogno!
Guardandomi allo specchio, mi rendevo conto che con una faccia come la mia non avrei mai fatto strage di cuori. Né sarei riuscito a farmi degli amici comportandomi così. Fanculo. Vivevo in quella condizione sin dai tempi dell’adolescenza, e iniziavo a credere che non ne sarei mai uscito. Alcol e droga, le uniche presenze costantemente al mio fianco, non sempre riuscivano a lenire la rabbia e la frustrazione che mi mangiavano da dentro, anzi, talvolta tendevano ad esacerbare il malessere.
Neppure la religione mi era stata di gran conforto. Conobbi un tipo, una volta. Aveva stampato in faccia il classico sorrisetto falso e viscido da venditore d’auto usate. Mi abbordò fuori dal solito bar.
“Vedo che sei terrorizzato all’idea d’andare all’inferno”, mi disse d’un tratto con voce melensa. Io ero malfermo sulle gambe, reduce dall’ennesima botta alcolica. Ma con un barlume di lucidità per capire il genere di soggetto con cui avevo a che fare.
Un uomo tutto casa e chiesa, devoto a moglie e figli quanto a dio. Chissà i segreti putridi che nascondeva.


“Ti piacerebbe essere Gesù senza soffrire, eh?”, gridai mentre mi allontanavo, caracollante ma deciso. “Dammi quei chiodi, piantali per bene!”
Forse era anch’egli frutto della mia immaginazione. Il mondo cascava a rotoli, ed io con lui. Basta, non ne potevo più, quella situazione mi stava uccidendo. Non sapevo cosa fosse peggio, se la perdita insita nella morte o il beneficio insito nella nascita. Nel dubbio, seguitavo a sconvolgermi senza tregua.
Il paradiso mi aveva buttato fuori a calci nel culo. O non m’aveva mai lasciato entrare? A volte mi sorprendevo a fissare delle foto che raffiguravano cose che avrei voluto ma che non ero in grado di ottenere. Quell’esistenza straziante mi stava conducendo verso il nulla.
Mi ubriacavo ogni notte, ma senza riuscire a ubriacarmi della vita. Eppure sopravviveva una speranza, una sorta di ostinazione, apparentemente insensata data la spirale di autodistruzione in cui ero intubato. Insistevo a prepararmi per qualcosa che non avrei mai raggiunto, e lo facevo con la forza della disperazione grazie alla quale mi tenevo aggrappato sull’orlo del baratro, in procinto di perdere anche le più piccole cose che ero riuscito a conquistare.
Per la maggior parte del tempo, però, mi sentivo talmente alienato e fuori di me da non ricordarmi neppure come mi chiamavo.
Il sogno era durato poco, non era nemmeno stato granché piacevole. Ed era finito. Al risveglio, mi rendevo conto che tutti i miei cosiddetti amici non facevano altro che raccontarmi balle, e che avrei dovuto morire in ogni caso, prima o poi.
Le mie giornate erano dominate da questi pensieri orribili. E avrei dato tutto l’oro del mondo almeno per dormire tranquillo la notte, anziché distendermi sul letto con l’atroce sensazione di sentirmi morto.
Tante volte avevo provato ad attaccarmi a qualcuno. Qualcuno in cui scorgevo, o m’illudevo di scorgere, una buona ragione per tirare avanti. Purtroppo, ero io per primo a erigere barriere difensive e negarmi qualunque possibilità. Mi sentivo goffo e impacciato al tuo cospetto e odiavo tutto ciò che avevo combinato fino a quell’istante, convinto del tuo biasimo.
Ne avevo fin sopra i capelli di reinventarmi i ricordi per farli sembrare più decorosi e poter vivere nell’ombra del tuo fascino; ero finanche disposto a sopportare insulti e silenzio supponente, sentimenti che la mia scarsa autostima mai mi avrebbe permesso di metabolizzare, pur di starti accanto.
Ma alla fine anche tu mi abbandonavi a me stesso, proprio come facevano tutti gli altri.

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