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mercoledì 24 giugno 2015

Progetto Idioma all'Heineken Jammin' Festival di Venezia // Bangers Music Academy n°6 di Ljubo Ungherelli

BANGERS MUSIC ACADEMY


Premessa: spesso e volentieri, i giornalisti musicali recensiscono dischi che non hanno ascoltato e concerti che non hanno visto. Io, che non sono un giornalista musicale, ascolto dischi che non esistono e vedo concerti che non hanno mai avuto luogo.
PROGETTO IDIOMA ALL’HEINEKEN JAMMIN’ FESTIVAL
DI VENEZIA

Come tutti sanno, alla mia brillante e ventennale carriera di scrittore (di più grande scrittore vivente), negli ultimi anni si è affiancata un’attività musicale, sempre e comunque legata a doppio filo ai miei affari letterari.
E in questo ultimo numero di “Bangers Music Academy” vi narrerò per l’appunto un episodio legato alle mie incursioni nel mondo della musica rock.
Alla fine dello scorso decennio, ritenevo d’aver chiuso una volta per tutte con la scrittura. Che fossi giunto ad analoghe conclusioni già nel 2002 e nel 2007, e in entrambi i casi fossi poi tornato sui miei passi, è un altro par di maniche.
Con l’imprescindibile aiuto di personaggi cui va la mia sempiterna gratitudine, organizzai un “funerale” coi controfiocchi: un concerto–reading nel quale avrei recitato brani tratti da vari miei romanzi, accompagnato da una band allestita per l’occasione.
Come di prassi, la situazione sfuggì di mano, e quello che nelle mie previsioni era un atto unico si trasformò altresì nell’evento costitutivo della malsana e multiforme creatura che prese il nome di Progetto Idioma.
Detto questo, spostiamoci dunque in avanti, ad un’estate successiva, allorquando, con metodologie che rivelerò solo dopo che le malefatte che ho commesso saranno cadute in prescrizione, assieme ai miei quattro colleghi mi ritrovai scritturato tra i gruppi “emergenti” che si sarebbero esibiti al prestigioso Heineken Jammin’ Festival.
Alzi la mano chi non ha mai sentito rammentare la suddetta kermesse. Nata a fine Novanta come sorta di paravento per l’ennesimo bagno di folla del Vasco nazionale (non Brondi), con annesse punizioni corporali ai malcapitati gruppi in cartellone nel corso della giornata, vedi le severe bottigliate inflitte agli Stereophonics, rei d’aver avuto l’ardire di calcare il medesimo palco dell’eroe dei due mondi (non Brondi), ha ospitato innumerevoli artisti di rango internazionale nella storica e cementificata location dell’Autodromo di Imola.
Autodromo in seguito abbandonato in favore del ridente Parco San Giuliano, alle porte di Venezia. Ridente il parco, un po’ meno gli spettatori, che nella seconda giornata si videro tramortiti da una tromba d’aria che devastò tutto quanto, con tanto di crollo di infrastrutture addosso a un paio di sventurati. Mi fa un gran piacere rimembrare quella giornata funesta, al sicuro nel mio studio e non bombardato da chicchi di grandine grossi come nespole, e in seguito intrappolato fino a tarda notte nelle vie circostanti, bloccate dagli alberi caduti sulle carreggiate. Io c’ero! Che culo eh.
Al grido di “perseverare diabolicum”, gli organizzatori, cui lo sponsor deve aver evidentemente fornito un eccessivo quantitativo di birra in omaggio che li ha resi ancor meno vispi del già basso standard usuale, non paghi d’aver dovuto annullare ciò che restava di quella prima edizione veneziana, scelgono con arguzia di confermare la location per gli anni a venire.
Ed è proprio in uno di questi anni a venire che anche noi Progetto Idioma ci siamo trovati parte in causa. Vi confesso che, avendo vissuto in prima persona la tregenda di cui sopra, mi ritenevo in abbondante credito con la sorte e mi apprestavo alla trasferta senza eccessive paturnie, salvo le immancabili seghe mentali di pragmatica.
Ironia della sorte, anche la nostra esibizione era in programma nella seconda giornata del festival. Altro sentore che, legge dei grandi numeri alla mano, mi rendeva garrulo e beato sul positivo esito dell’avventura che ci attendeva. Diamine, per un gruppo come il nostro si trattava di un’occasione irripetibile, dopo aver suonato per lo più in piccoli club del circondario fiorentino dinanzi a poche anime, intervenute soprattutto per scroccare i cioccolatini che regalavamo al termine dei concerti allo scopo di compensare il tormento psicofisico che il nostro rock ossessivo compulsivo inculcava negli spettatori.
Partiamo il giorno innanzi. Programma: arrivo previsto nel tardo pomeriggio, ci sistemiamo, ci godiamo i concerti della sera, abusiamo del catering nel backstage e l’indomani diamo fuoco alle polveri!
Sono alla guida di una delle due macchine che compongono la spedizione. Col mio piede notoriamente felpato siamo in laguna in poco più di due ore. Il cielo è terso, le nuvole timide, il sole rovente. Buon segno!
La giornata termina in tranquillità. Ce la prendiamo comoda, un po’ aggirandoci dietro le quinte, un po’ perlustrando l’immensa area verde che ospita il festival, un po’ adocchiando le performance dei altri gruppi in cartellone. Ci ritiriamo nelle nostre stanze dopo un breve summit su ciò che ci attende al risveglio.
Come da copione, prima di addormentarmi mando a memoria i testi dei pezzi che faremo. Abbiamo mezzora a disposizione, dobbiamo tagliare il nostro canonico set di quaranta–quarantacinque minuti. “Donbaki”, “Sacro profano impero”, “Domino perverso”, “L’avvoltoio”, “Augentaker”, “Marsala Pandori” e si chiude coi sette minuti della nostra piccola hit “Riunione di condominio”.
Se c’è una cosa che adoro nell’esibirmi dal vivo, è vestirmi e truccarmi. Se c’è una cosa che invece odio, è vestirmi e truccarmi. Il face painting e tutto il resto hanno un notevole impatto scenico ma è un martirio doversi conciare così a ridosso di ogni concerto. Ma l’adrenalina spinge e il momento si avvicina.
Alla fine siamo tutti pronti, nerovestiti e con gli occhiali scuri. Ci raggruppiamo in circolo per darci la carica e prendiamo possesso dello stage.
Si parte senza troppe cerimonie. Sul pezzo d’apertura manovro il kaossilator per ricreare i suoni elettronici che ci sono sul disco, poi lo lascio a terra, stacco il microfono dall’asta e prendo a muovermi e saltare sul palco, cercando al contempo di non distrarmi dal flusso ininterrotto di parole che sono i testi in prosa di Progetto Idioma. I monitor mi sparano addosso le distorsioni roboanti di chitarre e basso, eppure sento di riuscire a controllare la voce: le parole escono nitide, pur nel mio poco ortodosso stile esecutivo fatto di grida e declamazioni.
Sul finale de “L’avvoltoio” mi lascio cadere in terra alla maniera del protagonista dell’omonimo racconto di Kafka magistralmente musicato dai miei compagni. I quali macinano i loro suoni combinando precisione e irruenza punk. Come d’incanto, mi accorgo che siamo già alle battute conclusive. Il delirio di “Riunione di condominio” è il degno sigillo al nostro concerto. Torniamo nel backstage con addosso un sentore di trionfo che non vediamo l’ora di rivivere più e più volte…
Mi sveglio piuttosto intontito ma senza pensieri spiacevoli. Saranno i miei colleghi, più mattinieri di me, a offrirmene prontamente e in abbondanza. I primi suoni vagamente articolati che odo consistono per lo più in raffiche di bestemmie. Mi avvicino per chiedere spiegazioni.
“Stanotte c’è stato il degenero. Pioggia, grandine, palco scoperchiato, alberi sradicati, un bordello come l’altr’anno insomma. Ma non hai sentito nulla?”
Sono ancora più intontito di quando mi sono alzato. Gli altri hanno facce cupe come il cielo che continua a non promettere nulla di buono. Cupe e incazzate, aggiungerei.
“Andiamo lì a improvvisare un set acustico per gli alluvionati?”, provo a buttar lì, con spirito caritatevole degno di un adepto della clown therapy. Vengo gentilmente e collettivamente mandato a cacare.
“A mezzogiorno c’è la conferenza stampa degli organizzatori, dove probabilmente diranno che è tutto annullato e si può tornare a Firenze. Sentiamo almeno se ci rimborsano le spese del viaggio.”
Beffa delle beffe, nella catena di disastri piovuta nottetempo dal cielo (in senso più che letterale!), non solo sfuma il nostro glorioso concerto, ma addirittura tutto è avvenuto senza che io ne fossi cosciente. Come quando mi entrarono i ladri in casa mentre dormivo, avanzarono fino al salotto, non trovarono nulla di loro gradimento e se ne andarono via. Che fine ingloriosa!
Gli abiti di scena ricacciati nell’armadio, pitture, smalti, cipria, pennelli e rossetti richiusi mestamente nei cassetti in bagno. Cala il sipario, anzi non si è neppure mai alzato.

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