BANGERS MUSIC ACADEMY
Premessa: spesso e volentieri, i giornalisti
musicali recensiscono dischi che non hanno ascoltato e concerti che non hanno
visto. Io, che non sono un giornalista musicale, ascolto dischi che non
esistono e vedo concerti che non hanno mai avuto luogo.
PROGETTO
IDIOMA ALL’HEINEKEN JAMMIN’ FESTIVAL
DI
VENEZIA
Come tutti
sanno, alla mia brillante e ventennale carriera di scrittore (di più grande
scrittore vivente), negli ultimi anni si è affiancata un’attività musicale,
sempre e comunque legata a doppio filo ai miei affari letterari.
E in questo
ultimo numero di “Bangers Music Academy” vi narrerò per l’appunto un episodio
legato alle mie incursioni nel mondo della musica rock.
Alla fine dello
scorso decennio, ritenevo d’aver chiuso una volta per tutte con la scrittura.
Che fossi giunto ad analoghe conclusioni già nel 2002 e nel 2007, e in entrambi
i casi fossi poi tornato sui miei passi, è un altro par di maniche.
Con
l’imprescindibile aiuto di personaggi cui va la mia sempiterna gratitudine,
organizzai un “funerale” coi controfiocchi: un concerto–reading nel quale avrei
recitato brani tratti da vari miei romanzi, accompagnato da una band allestita
per l’occasione.
Come di prassi,
la situazione sfuggì di mano, e quello che nelle mie previsioni era un atto
unico si trasformò altresì nell’evento costitutivo della malsana e multiforme
creatura che prese il nome di Progetto Idioma.
Detto questo,
spostiamoci dunque in avanti, ad un’estate successiva, allorquando, con
metodologie che rivelerò solo dopo che le malefatte che ho commesso saranno
cadute in prescrizione, assieme ai miei quattro colleghi mi ritrovai scritturato
tra i gruppi “emergenti” che si sarebbero esibiti al prestigioso Heineken
Jammin’ Festival.
Alzi la mano chi
non ha mai sentito rammentare la suddetta kermesse. Nata a fine Novanta come sorta
di paravento per l’ennesimo bagno di folla del Vasco nazionale (non Brondi),
con annesse punizioni corporali ai malcapitati gruppi in cartellone nel corso
della giornata, vedi le severe bottigliate inflitte agli Stereophonics, rei d’aver
avuto l’ardire di calcare il medesimo palco dell’eroe dei due mondi (non
Brondi), ha ospitato innumerevoli artisti di rango internazionale nella storica
e cementificata location dell’Autodromo di Imola.
Autodromo in
seguito abbandonato in favore del ridente Parco San Giuliano, alle porte di
Venezia. Ridente il parco, un po’ meno gli spettatori, che nella seconda
giornata si videro tramortiti da una tromba d’aria che devastò tutto quanto,
con tanto di crollo di infrastrutture addosso a un paio di sventurati. Mi fa un
gran piacere rimembrare quella giornata funesta, al sicuro nel mio studio e non
bombardato da chicchi di grandine grossi come nespole, e in seguito intrappolato
fino a tarda notte nelle vie circostanti, bloccate dagli alberi caduti sulle carreggiate.
Io c’ero! Che culo eh.
Al grido di
“perseverare diabolicum”, gli organizzatori, cui lo sponsor deve aver
evidentemente fornito un eccessivo quantitativo di birra in omaggio che li ha
resi ancor meno vispi del già basso standard usuale, non paghi d’aver dovuto
annullare ciò che restava di quella prima edizione veneziana, scelgono con arguzia
di confermare la location per gli anni a venire.
Ed è proprio in
uno di questi anni a venire che anche noi Progetto Idioma ci siamo trovati
parte in causa. Vi confesso che, avendo vissuto in prima persona la tregenda di
cui sopra, mi ritenevo in abbondante credito con la sorte e mi apprestavo alla
trasferta senza eccessive paturnie, salvo le immancabili seghe mentali di
pragmatica.
Ironia della
sorte, anche la nostra esibizione era in programma nella seconda giornata del
festival. Altro sentore che, legge dei grandi numeri alla mano, mi rendeva
garrulo e beato sul positivo esito dell’avventura che ci attendeva. Diamine,
per un gruppo come il nostro si trattava di un’occasione irripetibile, dopo
aver suonato per lo più in piccoli club del circondario fiorentino dinanzi a poche
anime, intervenute soprattutto per scroccare i cioccolatini che regalavamo al
termine dei concerti allo scopo di compensare il tormento psicofisico che il nostro
rock ossessivo compulsivo inculcava negli spettatori.
Partiamo il
giorno innanzi. Programma: arrivo previsto nel tardo pomeriggio, ci sistemiamo,
ci godiamo i concerti della sera, abusiamo del catering nel backstage e
l’indomani diamo fuoco alle polveri!
Sono alla guida
di una delle due macchine che compongono la spedizione. Col mio piede notoriamente
felpato siamo in laguna in poco più di due ore. Il cielo è terso, le nuvole
timide, il sole rovente. Buon segno!
La giornata
termina in tranquillità. Ce la prendiamo comoda, un po’ aggirandoci dietro le
quinte, un po’ perlustrando l’immensa area verde che ospita il festival, un po’
adocchiando le performance dei altri gruppi in cartellone. Ci ritiriamo nelle
nostre stanze dopo un breve summit su ciò che ci attende al risveglio.
Come da copione,
prima di addormentarmi mando a memoria i testi dei pezzi che faremo. Abbiamo
mezzora a disposizione, dobbiamo tagliare il nostro canonico set di
quaranta–quarantacinque minuti. “Donbaki”, “Sacro profano impero”, “Domino
perverso”, “L’avvoltoio”, “Augentaker”, “Marsala Pandori” e si chiude coi sette
minuti della nostra piccola hit “Riunione di condominio”.
Se c’è una cosa
che adoro nell’esibirmi dal vivo, è vestirmi e truccarmi. Se c’è una cosa che
invece odio, è vestirmi e truccarmi. Il face painting e tutto il resto hanno un
notevole impatto scenico ma è un martirio doversi conciare così a ridosso di
ogni concerto. Ma l’adrenalina spinge e il momento si avvicina.
Alla fine siamo
tutti pronti, nerovestiti e con gli occhiali scuri. Ci raggruppiamo in circolo
per darci la carica e prendiamo possesso dello stage.
Si parte senza
troppe cerimonie. Sul pezzo d’apertura manovro il kaossilator per ricreare i
suoni elettronici che ci sono sul disco, poi lo lascio a terra, stacco il
microfono dall’asta e prendo a muovermi e saltare sul palco, cercando al contempo
di non distrarmi dal flusso ininterrotto di parole che sono i testi in prosa di
Progetto Idioma. I monitor mi sparano addosso le distorsioni roboanti di chitarre
e basso, eppure sento di riuscire a controllare la voce: le parole escono nitide,
pur nel mio poco ortodosso stile esecutivo fatto di grida e declamazioni.
Sul finale de
“L’avvoltoio” mi lascio cadere in terra alla maniera del protagonista
dell’omonimo racconto di Kafka magistralmente musicato dai miei compagni. I quali
macinano i loro suoni combinando precisione e irruenza punk. Come d’incanto, mi
accorgo che siamo già alle battute conclusive. Il delirio di “Riunione di
condominio” è il degno sigillo al nostro concerto. Torniamo nel backstage con
addosso un sentore di trionfo che non vediamo l’ora di rivivere più e più
volte…
Mi sveglio
piuttosto intontito ma senza pensieri spiacevoli. Saranno i miei colleghi, più
mattinieri di me, a offrirmene prontamente e in abbondanza. I primi suoni
vagamente articolati che odo consistono per lo più in raffiche di bestemmie. Mi
avvicino per chiedere spiegazioni.
“Stanotte c’è stato
il degenero. Pioggia, grandine, palco scoperchiato, alberi sradicati, un
bordello come l’altr’anno insomma. Ma non hai sentito nulla?”
Sono ancora più
intontito di quando mi sono alzato. Gli altri hanno facce cupe come il cielo
che continua a non promettere nulla di buono. Cupe e incazzate, aggiungerei.
“Andiamo lì a
improvvisare un set acustico per gli alluvionati?”, provo a buttar lì, con
spirito caritatevole degno di un adepto della clown therapy. Vengo gentilmente
e collettivamente mandato a cacare.
“A mezzogiorno
c’è la conferenza stampa degli organizzatori, dove probabilmente diranno che è
tutto annullato e si può tornare a Firenze. Sentiamo almeno se ci rimborsano le
spese del viaggio.”
Beffa delle
beffe, nella catena di disastri piovuta nottetempo dal cielo (in senso più che
letterale!), non solo sfuma il nostro glorioso concerto, ma addirittura tutto è
avvenuto senza che io ne fossi cosciente. Come quando mi entrarono i ladri in
casa mentre dormivo, avanzarono fino al salotto, non trovarono nulla di loro
gradimento e se ne andarono via. Che fine ingloriosa!
Gli abiti di
scena ricacciati nell’armadio, pitture, smalti, cipria, pennelli e rossetti
richiusi mestamente nei cassetti in bagno. Cala il sipario, anzi non si è
neppure mai alzato.
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