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mercoledì 23 ottobre 2013

La Gaia Musica // L'arte è morta? Testo di Jordan Giorgieri


 Riprendendo il mio primo intervento "Rock, Pop e Musica Colta", vorrei far notare come i più grandi album di tutti i tempi che ho elencato, chiaramente escludendo i generi puri da cui il pop e il rock si originano (classica, jazz, blues, country, folk), si concentrano davvero in pochissimi anni: dal 1965 al 1974 compresi, ovvero in soli 10 anni. Tutto il meglio è stato scritto in quei dieci anni e questo è davvero inopinabile. Volendo essere più stretti direi addirittura 7 anni, dal 1967, primo anno di psichedelia, al 1973, ultimo anno del grande prog. Passando attraverso momenti altissimi di musica dal vivo con i più grandi di tutti su un solo palcoscenico: Monterey Pop Festival (1967), Woodstock (1969), Isola di Wight (1970), tutti e tre ottimamente documentati dagli omonimi lungometraggi a colori. Tutto quello che c è stato prima o dopo deve in ogni caso fare i conti con questo periodo aureo. Perché? Semplicemente perché è l'unico periodo nel quale il già citato rapporto tra arte e intrattenimento va in crisi, in senso positivo però. Mi spiego meglio: mentre all'epoca arte e spettacolo si distinguevano difficilmente perché ogni spettacolo aveva in sé qualcosa di artistico (oviceversa), oggi si distinguono difficilmente perché non esiste più l'arte. Lapidario ma infondo è così. Ormai, che piaccia o no, tutte le forme di espressione confluiscono nel puro spettacolo di se stesse, sia che esso intrattenga, sia che esso respinga. Respingere per intrattenere, intrattenere per respingere. Quindi la domanda è d'obbligo: l'arte è morta? 

Per rispondervi eviterei di citare Hegel, anche se, ops, ormai l'ho fatto, è stato più forte di me. Ma non si chiama forse "gaia scienza" questa rubrica? Va da sé che i filosofi tedeschi dell'ottocento c'entrano sempre, in qualsiasi discorso. Dopo questa premessa metatestuale, mi toccherebbe davvero rispondere, ma chi sono io per farlo? Nessuno. Ma non è forse falsa modestia parlare di falsa modestia? Ecco il primo paradosso. Le domande universali attirano paradossi. Oscar Wilde a questo punto si trasforma in Andy Warhol+David Bowie. E Arthur Rimbaud in Jim Morrison. Se non si muore giovani si può essere poeti ma non certo maledetti? Falso, perché il poeta non può non essere maledetto. Specificarlo significherebbe togliere valore alla parola stessa. Carmelo Bene non è morto giovane ed è un poeta. Sto delirando? No, perché questo è il postmoderno. Ma cos'è il postmoderno? E' un continuo paradosso citazionista, un'infinita citazione che finisce (altro paradosso) nel cortocircuitarsi nella parodia di se stesso. E' un paradosso nel paradosso. In altre parole: è l'epoca in cui viviamo. Siamo postumi e ne subiamo ancora i postumi. Ma di cosa poi? Proprio dell'arte.
Il nuovo millennio, ma già gli anni ottanta e novanta del novecento, non produce e non può più produrre arte. Accontentiamoci dei postumi tritati e mescolati in mille combinazioni diverse (ma uguali). Di questo scrivo e posso scrivere. Imbellettiamo cadaveri. Diamo forma ai classici, mescoliamo le carte e fruiamo dell'arte che fu. Il postmoderno non è un movimento, è una condizione, per questo non è superabile; non si può andare oltre perché implicherebbe andare indietro. Tornare indietro per andare oltre? Un altro bel paradosso.
 Testo di Jordan Giorgieri dei Doppiofondo che per il blog di Riserva Indie cura la rubrica "La Gaia Musica"

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