Ogni volta che a Riserva Indie arriva un artista, una band o un discografico, è immancabile parlare anche di politica e di come questa, oggi, si intrecci con la musica, specie con la cosiddetta "altra musica" che tanto amiamo. Spesso provo un imbarazzo forte (da "militante deluso" direbbe qualcuno, da "sognatore depresso" mi definisco io) a sentire come si sia creata un'enorme scollatura tra "canali indipendenti" e politica, specie quella politica che per "affinità" è sempre stata vicina ai giovani, al loro mondo e alla loro cultura. Il solco è tracciato. Non esiste quasi più un artista che abbia un partito o un simbolo di riferimento, e parlo soprattutto dei più giovani, per gli over 30 spesso la militanza "esibita" è l'unica chiave che apre le porte alla possibilità di accedere a un circuito di live dove la valenza artistica conta meno delle idee che si mostrano (e che non sempre coincidono con quelle che si hanno).
Se da una parte (a destra) non c'è (quasi) mai stata sensibilità artistica (e men che meno musicale), dall'altra, storicamente, si è sempre trovata una spalla, un appoggio, spesso uno spazio (ad esempio i primi veri centri sociali e non l'accozzaglia di fancazzisti "Sabato in barca a vela e Lunedì al Leonka", che sovente "sporcano" ora quei luoghi) per esprimere la propria vena creativa. Allontanamento dei giovani dalla politica? Scollamento tra indie-rock e lotte sociali? No, semplicemente quei partiti, una volta di riferimento, ora non sono più modello per nessuno (artisti inclusi). E non è che manchi sensibilità verso problemi o questioni sociali; è che c'è la tendenza, sacrosanta, a non far più mettere una bandiera sulle proprie idee. Tecnicamente si direbbe "a non far più mettere uno sponsor sulla propria arte". Ricordo le feste dell'Unità degli anni '80-'90, le serate "classiche" dedicate alla musica con le band locali e poi con i concerti che solo in "certi ambiti" potevi trovare. Luoghi dove c'era un senso di appartenenza forte che sentivi anche solo a far la fila per una piadina con la nutella.
Poi il degrado, e qui non c'entra solo Berlusconi o Italia Uno, ma il declino politico culturale generale, specie di quella sinistra che possiamo con un eufemismo chiamare "radical chic" e che pretende di avere il copyright su cosa è culturalmente buono e cosa no e ce lo dice ogni settimana nel salotto buono di Fazio, sul divano della Dandini, via etere a Radio Tre o sulla sedia della signora Sofri, dove si ha sempre l'impressione che il libro proposto, il cantante intervistato, l'artista elogiato, esca sempre da certi "circuiti esclusivi" cui si accede con criteri in cui il merito è un optional. Una sinistra sempre più simile alla destra nell'approccio verso i militanti (le distanze abissali tra vertice e base), una concezione della musica "popolana" (e non "popolare") che ha portato le feste di partito a passare sempre più dai Marlene Kuntz a Marco Carta e "Amici" o peggio ancora agli pseudorave da discoteca preceduti da improbabili karaoke dove "Laura non c'è" ha sostituito "La locomotiva". Ecco, l'indie band degli anni Zero è cresciuta in un contesto in cui la festa dell'Unità sottocasa non era più la "riserva indiana dell'arte e delle tendenze giovanili" ma lo specchio e la riproposta di quello che passa la tv generalista, perché il popolo è "popolino" e serve, al massimo, per avallare decisioni prese ai piani alti o per far numero in piazze sempre più miseramente vuote di idee oltre che di bandiere. E su tutto questo il musicista degli anni Zero, giustamente, "ci skatarra su...".
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